LO ABBIAMO CHIESTO AL DOTT. ANTONIO SACCONE, RESPONSABILE DELL’UFFICIO LEGALE DELL’ISPETTORATO DEL LAVORO DI CHIETI PESCARA
Una lavoratrice, occupata come impiegata amministrativa a tempo parziale, è stata licenziata dall’azienda presso cui lavorava poiché la ditta ha riscontrato che ella aveva effettuato dal computer aziendale oltre 4.500 accessi a Facebook durante l’orario di lavoro nell’arco di 18 mesi, “per durate talora molto significative”.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento asserendo da un lato che il comportamento aziendale è stato lesivo della sua sfera di riservatezza e, d’altro canto, sostenendo che il medesimo licenziamento era stato ritorsivo perché conseguente ad una sua richiesta di fruizione dei permessi ex lege 104/92 per assistere un familiare ammalato.
La questione è stata oggetto di una causa, che è arrivata fino in Cassazione.
Quale è stata la decisione dei giudici di merito (Giudice del Lavoro e Corte di Appello)?
I giudici di merito (Giudice del Lavoro in primo grado e Corte di Appello in secondo grado) hanno ritenuto che il comportamento della lavoratrice “fosse in contrasto con l’etica comune”, poiché sia il numero degli accessi a Facebook che la loro durata sono stati considerati spropositati e, quindi, tali da legittimare il licenziamento comminato.
In particolare, i giudici del fatto hanno valutato che la condotta posta in essere dalla lavoratrice integri la violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa e che, pertanto, non possa ritenersi legittima.
Su quali basi di fatto i giudici di primo e secondo grado sono arrivati a ritenere legittimo il licenziamento?’
E’ stato in primo luogo ritenuto che non fosse stata violata alcuna norma sulla riservatezza, poiché il datore di lavoro aveva semplicemente contato il numero di accessi a Facebook effettuati della lavoratrice, senza entrare nel merito dei contenuti della sua navigazione in internet; egli, cioè, aveva semplicemente verificato quanti accessi aveva fatto la lavoratrice attraverso la sola cronologia del computer.
Inoltre, i giudici che hanno analizzato i fatti hanno altresì valutato – alla luce del quadro probatorio complessivamente acquisito – che non vi fosse alcun nesso tra il licenziamento e la domanda della lavoratrice di beneficiare dei permessi della legge 104/92.
Può il datore di lavoro controllare che una lavoratrice acceda a Facebook dal computer aziendale, atteso che esiste il divieto fissato dallo Statuto dei lavoratori di controllare a distanza l’attività dei lavoratori?
L’Art. 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/70, come riscritto dal Jobs Act) stabilisce che gli strumenti di lavoro, dai quali possa derivare anche la possibilità di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e comunque previo accordo sindacale o autorizzazione dell’ITL competente.
Da tale regola generale, per espressa modifica introdotta dal Jobs Act, sono escluse le ipotesi in cui gli strumenti di lavoro (quali ad esempio il computer, il tablet, il cellulare ecc.) siano indispensabili per rendere la prestazione lavorativa.
Non vi è dubbio che il computer aziendale rientri in questa ultima ipotesi, per cui – ritornando al caso specifico che ci occupa – è evidente che il datore di lavoro potesse legittimamente dotare la lavoratrice del computer aziendale sena dover richiedere alcuna autorizzazione preventiva.
Se poi potesse controllarne l’utilizzo fatto dalla stessa lavoratrice, è valutazione rimessa al Giudice di merito, che nella fattispecie ha ritenuto legittima tale modalità di controllo, in quanto non lesiva della riservatezza e della dignità della lavoratrice.
Come è finita in Cassazione?
Anche la Corte di legittimità ha confermato la decisione dei Giudici di primo e secondo grado.
La Suprema Corte, infatti, ha respinto le tesi difensive della lavoratrice che si basavano sul fatto che il licenziamento avesse natura ritorsiva, in quanto avvenuto dopo la richiesta di permessi ex lege 104/92, escludendo ogni nesso tra il recesso e tali richieste ed ha altresì confermato che il datore di lavoro non ha violato alcuna norma a tutela della privacy della dipendente, il cui comportamento invece è stato ritenuto grave e posto in essere in violazione dei doveri di diligenza e buona fede.